I Lakota sono uno dei tre gruppi in cui si articolava la grande alleanza Sioux, di cui costituivano, con il nome di Teton, uno dei sette originari “fuochi del consiglio”. Gli altri due gruppi sono denominati Dakota orientali (Santee) e occidentali (Yankton ).

I Teton avrebbero incarnato, nell’immaginario del mondo occidentale, l’immagine tipica dell’indiano americano, pur essendo stati protagonisti di una civiltà di necessità, basata sul cavallo e sulla caccia al bisonte che durò in effetti soltanto pochi decenni.

I Lakota erano il più occidentale dei tre gruppi sioux;  sotto la pressione di popolazioni native confinanti, spinte a loro volta verso occidente e armate dall’uomo bianco, arrivarono ad occupare quelli che attualmente sono il Dakota del Nord e il Dakota del Sud.  Dopo la loro migrazione verso le grandi praterie ed il conseguente distacco di fatto dal resto della confederazione sioux, essi ricostruirono idealmente i “sette fuochi del consiglio“, articolandosi in altrettanti sottogruppi.

Il termine Sioux deriva dall’espressione meno che serpente, usata con intento dispregiativo per indicare le popolazioni che vivevano nelle grandi pianure centrali degli Stati Uniti e del Canada meridionale, fra il fiume Platte fino al monte Heart e dalle foreste del Minnesota, fino al Missouri e poi alle montagne chiamate Big Horn.

Il cavallo è un Dragon, in quanto fornito di snodi agli arti, mi ha permesso di far assumere la tipica posizione in impennata. Per far ciò ho dovuto rinforzare le zampe posteriori inserendo al loro interno un robusto filo di ferro, nonché dei perni sempre in ferro per l’ancoraggio. Le zampe anteriori sono state quasi completamente rifatte. Sia la lancia, che il copricapo, che lo scudo sono stati totalmente auto costruiti, mentre gli abiti in pelle sono stati interamente ricolorati.

 

Il “tepee”, ovvero quella tenda conica composta da una struttura di pali di legno sulla quale si adagiava una copertura di pelli di bisonte, corteccia di betulla o teli, era la “casa” degli indiani delle Grandi Pianure del nord, quei nomadi che trascorrevano la propria vita migrando al seguito dell’animale da cui dipendeva la propria vita: il bisonte.
Le tende degli indiani erano composte da elementi di facile reperimento in natura anche se talvolta questi stessi elementi richiedevano un lungo intervento umano per essere trasformati e resi utilizzabili.

Gli indiani facevano uso specialmente di legno, scorza, arbusti, paglia, pellame, terra, creta e pietra. Aveva un’apertura in alto che serviva alla fuoriuscita del fumo (il fuoco veniva tenuto sempre acceso). Il tepee veniva usato nel nord ovest, nel nord est, nella zona subartica e nella zona del sud ovest.

L’abitazione era resistente e forniva un ambiente tiepido e confortevole ai suoi occupanti anche durante gli inverni più rigidi, era impermeabile anche sotto le piogge più battenti e fresca anche al culmine delle calure estive. Era trasportabile, fattore importante dal momento che la maggior parte delle tribù  era nomade e poteva essere smontata ed imballata rapidamente quando una tribù decideva di mettersi in movimento, così come era possibile tornare a tirarla su rapidamente quando una tribù decideva di insediarsi in un’area.

Il diorama è stato interamente autocostruito utilizzando pelle di daino cucite a mano seguendo l’impostazione tipica dell’epoca (si può vedere nella parte posteriore, in alto, la forma della pelle di un bisonte compresa la coda), ed è composta da due sezioni di teli: un primo strato di teli posati all’interno, agganciati ai pali, che servivano per l’isolamento termico, ed un secondo strato esterno, quello visibile.

 

I tunnel rats, topi di galleria, erano unità di soldati americani addestrati per compiere missioni di ricerca e distruzione sotterranea durante la guerra del Vietnam.

I Viet Cong crearono una fitta rete di complessi sotterranei utilizzati come rifugi, centri di comando e passaggi segreti.

Una volta scoperto un tunnel venivano inviati i tunnel rats con lo scopo di uccidere gli occupanti e distruggere le strutture con esplosivo. I rats erano in genere soldati di bassa statura.

I tunnel venivano realizzati da volontari, utilizzando semplici zappe e cesti. I passaggi non venivano realizzati in linea retta ma con angolazioni per deviarne i colpi esplosivi da granate.

Al rilevamento di un ingresso del tunnel il rat veniva calato a capofitto tenuto per i piedi dai compagni. Era equipaggioto di una pistola in una mano e di una torcia nell’altra. La missione principale era quella di uccidere i nemici; dopo aver ultimato la perlustrazione nel tunnel ed essere usciti, venivano piazzate le cariche di esplosivo C4 e si procedeva a far detonare le cariche e demolire il tunnel.

Immaginate la sensazione di strisciare in uno stretto cunicolo, non sapendo chi vi sia al di là di esso, dove conduce e quali pericoli si possano trovare dietro ogni curva, siano esse trappole o nemici.

 

 

Nell’ultimo conflitto il Battaglione Cervino per ben due volte fu formato e due volte distrutto.

Il Monte Cervino è una leggenda,  nelle sue fila vi erano tutti campioni di sci e di roccia,  annoverando esclusivamente volontari e scapoli,  condizione prima per essere accettati.

La permanenza in Russia del “Cervino” durò dieci mesi.   Il  primo  combattimento  nel marzo  del ’42  a  – 32°  sotto zero sul fronte del Ploski,  l’ultimo combattimento nel gennaio del ’43 a Olikowatka.  Quando a dicembre i russi scatenarono la loro offensiva il “Cervino” si trovava a fianco della “Julia” a condividerne il martirio.  La loro ritirata finì alle porte di Nikolajewka nel gennaio del ’43,  dove per l’ennesima volta la tenaglia nemica si chiuse su di loro al grido del motto del battaglione “Pistaa!”,  prima che la “Tridentina” potesse arrivare loro in soccorso.

Anche nell’immenso fronte russo si sparse ampiamente la fama del “Cervino”,  i cui alpini venivano con rispetto e timore chiamati  “I Diavoli Bianchi”.

 

 

Questo diorama non è una vera e propria novità in quanto l’ho realizzato qualche anno fa, ma avendo deciso di riproporlo in occasione di una manifestazione modellistica, il Model Show di Varedo 2015,  in cui tra l’altro per la prima volta in assoluto in Italia si teneva il “Varedo in Action”, manifestazione esclusivamente dedicata alla scala 1/6,  ho voluto così rivisitarlo completamente dandogli una nuova veste, ancor più attinente alla drammaticità degli eventi accaduti in quei frangenti.

Il restiling è stato pressochè totale, introducendo un nuovo personaggio, il ferito portato a spalle, rivedendo in toto le posture dei personaggi ed aggiungendo alla scena, seppur di per sè già drammatica,  la connotazione di ulteriore drammaticità dettata dalla presenza della neve in grande quantità, a sottolineare il clima particolarmente rigido dei luoghi e pertanto le enormi difficoltà e sofferenze sopportate dai nostri alpini.

 

 

 

Mi sono imbarcato nella costruzione da zero di una sezione del sommergibile tedesco U-Boot 96, classe VII C, lo stesso del celeberrimo film “Das Boot” di Wolfgang Petersen, più precisamente la parte che riguarda la sala di controllo con il soprastante comparto periscopio e la torretta.

L’impresa è sicuramente titanica ed oltremodo impegnativa, vista la quantità di particolari che si trovano all’interno della sala di controllo.

Qualche numero per inquadrare le dimensioni di questo bestione:  la sala di controllo avrà un’altezza interna cm. 55, lunghezza compartimento cm. 150, oltre a cm. 10 del ponte inferiore esterno e cm. 60 della torretta esterna.

Lo spaccato che intendo realizzare è esattamente riprodotto nel modellino in scala minore delle prime quattro foto.

Per la costruzione del manufatto utilizzerò principalmente lastre di polistirolo ad alta densità (PAD),  legno e plasticard.

 

La Battaglia di Verdun, in francese Bataille de Verdun, fu l’unica grande offensiva tedesca avvenuta tra la prima battaglia della Marna del 1914 e l’ultima offensiva nella primavera del 1918. Fu una delle più violente e sanguinose battaglie di tutto il fronte occidentale della prima guerra mondiale. Ebbe inizio il 21 febbraio 1916 e terminò nel dicembre dello stesso anno.

Questa spaventosa battaglia divenne una leggenda nazionale in Francia, sinonimo di forza, eroismo e sofferenza, i cui effetti e ricordi perdurano ancora oggi.

Fu la più lunga battaglia di ogni tempo, coinvolse quasi tre quarti delle armate francesi. Fu un vero e proprio bagno di sangue.

Nel 1916 Verdun era una cittadina considerata inattaccabile dai comandi francesi. Da ogni lato Verdun era circondata da ripide colline lambite dalla Mosa, presidiate da numerosi forti che avrebbero impedito grazie ad un efficace tiro incrociato qualunque avanzata nemica.

Verdun fu munita di una serie di profonde trincee protettive, lunghe fino 5 km, tecnicamente la città era il punto più forte dell’intero fronte francese, ma in pratica si sarebbe rivelato uno dei più deboli. Questo perchè la piazzaforte fu privata quasi completamente dei suoi pezzi d’artiglieria, che furono tolti per essere adoperati al fronte. In questo modo il sistema difensivo venne privato delle sue armi, ma successivamente anche dei suoi uomini. Questi furono mandati su altri fronti, lasciando praticamente sguarnito il caposaldo di Verdun, dove pertanto non fu possibile eseguire il giusto completamento del sistema trincerato a difesa del settore che, al momento dell’attacco tedesco, era privo di trincee di collegamento, reticolati e collegamenti telefonici sotterranei. Tutte necessità vitali per reggere ad un attacco nemico.

Quindi le linee di resistenza di Verdun non erano caratterizzate da una fitta rete di trincee tra loro collegate, così come invece avveniva sul resto del Fronte Occidentale. Ciò significa che tutta la lunga battaglia di Verdun venne combattuta all’aperto, in piena terra di nessuno, senza alcun tipo di riparo o caposaldo.

Queste trincee furono scavate più per consentire delle linee di collegamento con il fronte e vennero completate solo dopo la fine della battaglia, in previsione di una ripresa delle ostilità negli anni seguenti del conflitto.

I soldati francesi erano affettuosamente chiamati “Poilus” Pelosi, in quanto non riuscivano a radersi, ne a tagliarsi spesso i capelli, costretti per lunghi periodi in prima linea, dentro le trincee.

 

 

 

Un altro lavoro eseguito nel lontano 2010.   Pima di procedere nella visione dei contributi fotografici,  ritengo di dover fare una doverosa precisazione:  nelle sequenze che seguiranno vi è una gran profusione di bandiere, gonfaloni e striscioni riportanti l’effige della svastica che ovviamente, visto il tema conduttore di questo articolo, non potrebbero mancare per una corretta ricostruzione storica degli eventi cui fanno riferimento.

Ciò non vuole essere in alcun modo e sottolineo nuovamente “in alcun modo”, un richiamo in ordine ad ideologie politiche di sorta, ne tanto meno è ne è mai stato nelle mie intenzioni smuovere coscienze o suscitare polemiche di sorta,  in quanto l’intenzione primaria è e resta semplicemente la ripresa di un evento storico in chiave modellistica 1:6.

La scena si svolge a Berlino e richiama una di quelle oceaniche adunanze, tipica di quei tempi, nel momento in cui le truppe sfilano per prendere poi posizione di fronte al palco per l’arrivo del comandante in capo.

 

Anche quello che segue è un vecchio lavoro eseguito qualche anno fa.  Ritrae il frenetico svolgersi delle attività all’interno di un centro di telecomunicazioni, tattica e strategia tedesco durante il secondo conflitto mondiale.

 

Riprendo il diorama in autocostruzione,  in precedenza proposto,  ritraente gli interni di una residenza parigina negli anni dell’occupazione tedesca. La scena immortalata è quella di un concerto di musica classica alla presenza di alti ufficiali tedeschi.